Se due milioni vi sembran pochi

Le primarie di domenica 30 aprile, che hanno chiuso la fase congressuale del PD, sono state una nuova, grande festa di partecipazione e democrazia. Ma invece che parlare dei quasi due milioni di persone che hanno votato e del progetto politico al quale lavorare per candidarsi di nuovo al governo del Paese, il tema su cui vorrebbero concentrare l’attenzione sia gli sconfitti sia gli esponenti di altri partiti (a partire da quelli che dal PD sono usciti ma più che alla costruzione del nuovo soggetto sembrano sempre interessati solo alle vicende di casa nostra) è quello relativo alla partecipazione. Il dato da cui partire è semplice: quasi 2 milioni di persone si sono recate ai gazebo per scegliere il nuovo segretario nazionale nonostante la data non fosse propriamente felice (esattamente in mezzo a un doppio ponte decisamente invitante) e nonostante da più parti si fosse già pregustato il flop asserendo che si sarebbe fatto fatica ad arrivare al milione.

Due milioni di persone sono tante. Comunque la si voglia vedere. E nessun’altra forza politica italiana (o europea) ha la capacità, oggi, di fare altrettanto. Un esempio concreto: a scegliere il nuovo segretario del Partito Socialista spagnolo saranno meno persone di quelle che hanno votato soltanto in Toscana.

Certo, se ci fermiamo al semplice dato numerico la flessione rispetto a 4 anni fa ovviamente c’è stata e nessuno vuole sottovalutarla. Ma sappiamo quanto, in questo tempo, il quadro politico (e la percezione della politica in generale) siano mutati. Ed è curioso che a criticare i nostri numeri siano, ad esempio, i grillini che tanto si ergono a paladini della democrazia diretta ma hanno scelto i candidati sindaco di 14 città con 3278 voti in assoluto. Alcuni esempi, tanto per capire: a Cuneo ha ricevuto 19 voti su 38. A Monza 17 su 60. A La Spezia 29 su 43. A Lucca 52 su 94. A Rieti 55 su 73. A Frosinone 18 su 33. A Lecce 31 su 46.

Chi critica dall’interno del PD, invece, non dice è che la partecipazione non era affare solo di Matteo Renzi. Anzi. Proprio perché il congresso era l’occasione per contendere la leadership, una spinta in tal senso avrebbe dovuto arrivare prima e più di tutto da chi si proponeva di dare al PD una guida nuova e una alternativa al segretario uscente. Il congresso del nostro partito sia nella fase di consultazione tra gli iscritti sia in quella del voto delle primarie è un campo aperto dove il risultato è frutto del lavoro di tutti e non ha censori o “garanti del partito-azienda” che dall’alto decidono se l’esito ha visto prevalere o meno il candidato preferito (vi dicono niente Genova e il caso Cassimatis per il M5S?).

E invece? Invece qualcuno che da oltre un anno si era candidato a guidare il partito ha scelto di non giocare dall’interno la sua sfida e di andarsene da un’altra parte. E chi è rimasto sembra non voler accettare il fatto che gli iscritti prima e gli elettori poi abbiano scelto in maniera chiara e netta da un lato chi vogliono come leader del partito e dall’altro che sia la linea politica liberal-democratica quella giudicata migliore per il futuro del Paese.

Il congresso è finito. E non dobbiamo replicare l’errore, fatto nel recente passato, di continuare a vivere nel partito un clima di conflittualità permanente che i nostri iscritti, i nostri elettori e tutti i cittadini hanno chiaramente dimostrato di non capire e non voler più accettare. Ci aspettano 4 anni di lavoro da affrontare insieme in cui a noi è affidato il compito di ascoltare le istanze di chi ha perso e a chi è minoranza il dovere di rispettare il volere democraticamente espresso da centinaia di migliaia di iscritti ed elettori senza dare una visione caricaturale di ogni legge, ogni provvedimento e ogni scelta che venga presa da parte di chi guida il partito.

Ecco perché, alla luce di tutto questo, una base di due milioni di persone non può essere sminuita. Anzi. Dovremmo tutti, nessuno escluso, guardarla con grande orgoglio e con enorme rispetto. E dovremmo sentire tutti, davvero nessuno escluso, il carico di responsabilità che ci è stato da loro affidato, indipendentemente dalla preferenza che hanno espresso.

Due milioni di persone in una domenica di fine aprile ci hanno detto di credere nel Partito Democratico, di credere nella partecipazione, di credere nella democrazia e di credere nell’unità di un partito plurale che, a 10 anni dalla sua nascita, ha più che mai attuali le sue ragioni fondative. Due milioni di persone, insomma, ci hanno detto che credono nella costruzione di un progetto forte, riformista e di governo da contrapporre alle destre e a chi si fa profeta della democrazia in virtù di una manciata di clic. A noi, adesso, il compito di non disperdere e, anzi, rafforzare questo patrimonio di donne e di uomini, abbandonando le litigiosità da congresso permanente che tante energie (e tanti voti, ahime) ci hanno sottratto anche negli ultimi mesi.

E’ una sfida ambiziosa e difficile, lo so bene, ma in gioco c’è il futuro del nostro Paese. E non possiamo e non vogliamo lasciarlo nelle mani pericolose dei Grillo o dei Salvini.

 

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