Paura. Non giriamoci intorno. Ci siamo addormentati venerdì sera e svegliati le mattine seguenti sentendocela addosso. Forte e chiara. Profondamente, intimamente. Paura per noi. Paura per le nostre famiglie. Paura per i nostri cari. Perché hanno colpito la nostra normalità, quella di una cena fuori, di una partita allo stadio, di un concerto a teatro. Perché hanno voluto mandarci un messaggio chiaro: qualsiasi cosa farete, dovunque andrete non sarete al sicuro. E lo hanno fatto a Parigi, in “casa nostra”, mostrandoci quello che altrove accade quotidianamente ma che più facilmente possiamo scegliere di non vedere o non voler sapere.
Siamo in guerra? Qualcuno se lo domanda, qualcuno lo afferma con certezza. Io credo che lo saremo, da oggi in poi, prima di tutto con noi stessi. Cosa fare? Come comportarsi? Cedere alla tentazione della paura modificando i nostri comportamenti quotidiani o provare a continuare a vivere le nostre vite? È un “conflitto” non banale. Perché non ci sono più “luoghi da evitare”, dovremmo evitare il nostro vivere quotidiano. Ma se cedessimo a questo solo pensiero sarebbe come essere tutti ostaggi, privati dalla loro pazzia della nostra stessa esistenza. Sarebbe una resa. E non possiamo permettercela.
Di una cosa, però, sono certo. Non possiamo e non dobbiamo cedere neppure alla tentazione (populista e forse anche popolare, certo) della sola reazione rabbiosa, del radiamoli tutti al suolo, del chiudiamo le frontiere, dell’innalziamo muri, del portiamo anche noi morte e sterminio. Ci renderebbe forse più tranquilli? Farebbe si che fossimo più sicuri nell’andare allo stadio o a un concerto? Quando anche lo facessimo, eviterebbe un altro Bardo, un altro Bataclan, un’altra Atocha? Io sono fermamente convinto di no.
Serve una reazione ferma, questo sì. E serve che l’Europa insieme agli Stati Uniti, alla Russia e a tutte le civiltà democratiche decidano di combattere davvero, come forse ancora mai è stato fatto, quello che è il nemico vero. Non l’Islam in quanto tale, ma il sedicente Stato Islamico. Quello è il cancro da estirpare e da fermare nella sua drammatica espansione e proliferazione. Serve isolare i terroristi. E dobbiamo farlo tutti insieme, nessuno escluso.
Non possiamo più girarci dall’altra parte come non possiamo cedere alla spirale della morte che chiama altra morte e del terrore che chiama altro terrore. E se vogliamo provare, per un secondo, a sforzarci di restare umani e non abbassarsi al livello delle bestie che hanno sconvolto Parigi dobbiamo ricordare che ogni giorno 42500 persone fuggono dalla guerra. Quarantaduemilacinquecento. Fuggono da quella morte e da quella follia che oggi appare nitida ai nostri occhi. Quella che qui ci ha sconvolto in una notte di venerdì e che in altre parti del mondo, non certo lontanissime da casa nostra, è una drammatica quotidianità.
Aiutare gli uni e combattere gli altri non è solo un ‘si può’ ma un ‘si deve’.
E allora chiedo davvero, col cuore, di non considerare le nostre morti diverse dalle morti altrove. Di non cedere a facili (ma errate) generalizzazioni. Chiedo di ricordare che la follia degli estremismi si annida ovunque e che la storia recente racconta anche di Oslo e Utoya, sangue anti islamico, giovani barbaramente uccisi anche in quel caso nel loro vivere quotidiano da una mano che si professava cristiana.
Pensiamoci, almeno. Riflettiamoci per un attimo cercando di non cedere a quella paura che oggi, inevitabilmente, ci sentiamo addosso. Abbiamo il dovere di farlo, e di reagire, tutti insieme. Solo così riusciremo a vincere. Solo così la civiltà potrà continuare a essere più forte della barbarie.