Cinque buone ragioni per dire sì alla costituzione delle macro-Regioni

Nel dibattito sul riassetto istituzionale e sul superamento degli attuali confini regionali ho voluto dire la mia. L’ho fatto insieme al professore di diritto costituzionale (e amico) Nicola Pignatelli sulle colonne del Corriere Fiorentino. Ecco il testo del nostro intervento.

Caro direttore,
il presidente Enrico Rossi, su queste pagine, ha lanciato una interessante sfida sul tema di una macroregione che metta insieme Toscana, Umbria e Marche.

Un’ipotesi che sembra porsi in apparente antinomia col processo di riforma costituzionale all’esame del Parlamento. Il manifesto dell’Italia di Mezzo non costituisce infatti una critica al nuovo modello istituzionale bensì la prossima sfida per la politica a tutti i livelli. Si tratta di una tappa del complesso processo riformatore che dovrà portare a un nuovo ruolo delle Regioni, meno legislativo e maggiormente di programmazione e pianificazione. Una modifica necessaria per il progressivo ridimensionamento dell’autonomia regionale, imposto da vincoli sovranazionali, e da maggiori controlli da parte della Corte dei conti sulla gestione finanziaria. Non solo. L’approvazione della riforma costituzionale e la completa attuazione della riforma legislativa Delrio rischieranno di generare una sorta di sistema tendenzialmente «duale», in cui giocheranno un ruolo centrale solo lo Stato e i Comuni, anch’essi da sottoporre ad un processo radicale di unificazione.

E’ in questo scenario che si inserisce l’idea di una macroregione che possa essere strategica e propulsiva, quindi «centrale» geograficamente e funzionalmente. Le ragioni generali di una simile, coraggiosa, scelta riformatrice sono almeno cinque:

1) l’implementazione della efficienza del nuovo ruolo di programmazione e di pianificazione delle Regioni;

2) l’individuazione di aree omogenee capaci di garantire economie di scala e ambiti realmente ottimali per la prestazione dei servizi;

3) la pianificazione delle infrastrutture strategiche;

4) il riequilibrio dimensionale rispetto ad alcune città metropolitane (Roma, Milano, Napoli) che comprendono circa un terzo della popolazione nazionale;

5) una ulteriore razionalizzazione dei costi della politica.

Che questo disegno si compia con l’Umbria e le Marche non dobbiamo deciderlo oggi. Potrebbe perfino essere suggestivo riproporre il disegno dell’Italia Augustea quando, nel 7 d.C., la nostra penisola fu divisa in undici territori e l’attuale Toscana prese il nome di Regio Etruria allungandosi nel Lazio fino alle porte di Roma.

Ma al di là dei confini geografici, se davvero la Toscana vuole competere in Europa serva dare vita a una realtà del Centro Italia che al suo interno contenga Comuni di dimensioni adeguate e che, laddove trovi concretizzazione il progetto di una macro regione adriatica, vada a costituirne una analoga anche sul fronte del Tirreno. Il meccanismo «dal basso» previsto dall’articolo 132 della Costituzione (la richiesta di fusione deve essere avanzata da un numero di Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni e quindi approvata con referendum) è complesso.

Altrettanto problematica e prematura appare, a oggi, una nuova riforma costituzionale che imponga «dall’alto» le macroregioni. Perché, dunque, non provare a cominciare dalla stipula, da parte delle Regioni interessate, di intese per il miglior esercizio delle proprie funzioni (magari anche con la istituzione di organi comuni come previsto dal nuovo articolo 117 della Costituzione) da sottoporre alla ratifica delle leggi regionali? Spetterà poi al Governo, in attesa di una riflessione più ampia, incentivare economicamente lo sviluppo di tali intese per aprire, davvero, una nuova fase del regionalismo costituzionale.

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